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Per Aspera Ad Veritatem n.16
Intelligence e statistica. Con interventi di Alberto ZULIANI, Giovanni Alfredo BARBIERI, Vittoria BURATTA


(**) Gli interventi proposti nelle pagine seguenti intendono offrire al lettore, nel contesto del rapporto tra intelligence ed analisi strategica, una chiave di lettura per l'approfondimento dell'intera problematica concernente l'elaborazione di scenari di analisi e di previsione per il medio-lungo periodo, con particolare riferimento agli strumenti e alle peculiarità della disciplina statistica.
L'obiettivo che il Forum si propone è quello di presentare un quadro complessivo della metodologia statistica al fine di conoscerne ed approfondirne componenti e linee di tendenza, obiettivo che, nell'ottica di un Servizio d'intelligence, costituisce un'opportunità di rilievo per gli addetti ai lavori non disgiunta, si ritiene, dal sicuro interesse che potrà raccogliere in una platea più ampia come quella alla quale la Rivista si rivolge.


Zuliani - (Intervento introduttivo) - L'informazione statistica serve per comprendere i fenomeni che ci circondano.
Sull'informazione concernente il territorio si costruisce gran parte della capacità politica di fare intelligence sul territorio.
L'intento del Forum è quello di contestualizzare l'intelligence, intendendo con ciò calarsi in un'informazione possedendo già un'informazione di carattere generale. Questo deve costituire un elemento stimolante ed è un aspetto piuttosto importante dell'analisi statistica.
Come Istituto noi produciamo ogni anno un'informazione di carattere generale che è il nostro Rapporto annuale sulla situazione del Paese, esso viene presentato alla Camera dei Deputati ormai dal 1992 e se ne sono, quindi, accumulate parecchie versioni.
Il Rapporto annuale fotografa lo stato dell'Italia, illustra la situazione così come si presenta nell'anno precedente. La Dott.ssa Vittoria Buratta ed il Dott. Giovanni Alfredo Barbieri sono i responsabili del Rapporto dello scorso anno. Dopo questo intervento introduttivo lascerò loro il campo per meglio approfondire alcune tematiche e per soddisfare ogni curiosità al riguardo.
In via generale ritengo che l'ISTAT sia il soggetto meglio attrezzato a livello nazionale, in termini di informazione sui fenomeni economici e sociali in senso lato. Con il suo lavoro l'Istituto tocca gran parte delle problematiche che investono il Paese, redigendo statistiche giudiziarie, statistiche sociali in senso stretto, statistiche delle imprese, statistiche delle imprese industriali, statistiche dei servizi e statistiche delle amministrazioni pubbliche.
L'ISTAT è impegnata in modo rigorosissimo al fine di rispettare la privacy connessa alle informazioni individualmente raccolte, anche in caso di richieste da parte dell'Autorità Giudiziaria. Naturalmente ogni informazione viene raccolta a livello individuale e non può che essere trattata statisticamente.
Dal punto di vista della raccolta, dello stoccaggio, dell'utilizzazione e del trattamento delle informazioni, l'ISTAT dispone di un'informazione di tipo strutturale che immagazzina sempre di più in sistemi informativi.
Attualmente le indagini sono tasselli nell'ambito di sistemi informativi che contengono una pluralità di informazioni di fonte diversissima. Pertanto, il sistema informativo costituisce una struttura capace di rispondere ad esigenze diversificate, anche non conosciute inizialmente, ed è costruito per essere multi-scopo.
L'Istituto poi analizza l'evoluzione congiunturale del Paese, attraverso la predisposizione di una serie di rilevazioni correnti, ad esempio sull'evoluzione delle imprese e sull'evoluzione delle famiglie. Ne cito una, a mio avviso, emblematica e molto articolata, la cosiddetta indagine multi-scopo sulle famiglie. Questa indagine, che viene ripetuta ogni anno su un campione sufficientemente stabile, si articola in una prospettiva tri-quadriennale e prevede indagini di approfondimento su argomenti diversi, quali la salute, la cd. "vittimizzazione" ecc.
L'indagine multi-scopo, attraverso la quale si possono cogliere una serie di aspetti evolutivi di tipo congiunturale, si caratterizza per la sua estrema duttilità in quanto, di volta in volta, si possono inserire ulteriori blocchi di informazioni.
Da pochi anni stiamo poi sperimentando, ed abbiamo intenzione di mettere a regime, un altro tipo di indagine multi-scopo sulle imprese, che si presenta fortemente duttile.
Due anni fa l'abbiamo sperimentata su un argomento di particolare rilievo e di grande attualità: la flessibilizzazione del lavoro. Su questo argomento siamo stati i primi a dare informazione, e quest'anno abbiamo introdotto nell'indagine un nuovo elemento, realizzando il censimento intermedio dell'industria dei servizi.
Ci auguriamo di poter presto realizzare anche un'indagine multi-scopo sulle istituzioni.
Perché queste informazioni? Le informazioni di quadro e le informazioni congiunturali? Intanto perché queste danno modo di creare numerosissimi modelli di previsione, e non a caso, tutti i modelli previsionali sono realizzati su un'informazione statistica di base.
Per quanto riguarda l'Istituto, anche noi abbiamo alcuni modelli di previsione, in particolare ci siamo fortemente orientati ad utilizzare i modelli cosiddetti di micro-simulazione. Modelli di questo tipo sono stati applicati, ad esempio, alla previdenza sociale ed al sistema del welfare.
I modelli di simulazione e di micro-simulazione aiutano essenzialmente a capire quale sarà la risposta rispetto a determinati cambiamenti, a determinati stimoli, utilizzando dati individuali, quali i dati sulle famiglie, sugli individui, sulle imprese, sulle istituzioni.
Al momento sono ben avviati i modelli di micro-simulazione riguardanti le famiglie e siamo ormai in grado di capire quale sarà l'impatto sui nuclei familiari e quindi quali tipi di comportamento verranno attivati se, ad esempio, viene posto in essere un certo intervento sulla Previdenza sociale, sul sistema del welfare, o sulla Sanità.
Questi modelli sono statici ma al tempo stesso dinamici, nel senso che tengono conto anche dei cambiamenti provocati dalla modificazione introdotta. E' ovvio, infatti, che se si interviene nel settore della Sanità o della Previdenza, i comportamenti delle famiglie e degli individui cambiano, così come è evidente che se, per esempio, vengono introdotti ticket sui medicinali, oppure se lo Stato non paga più le medicine a tutti, questo induce dei comportamenti di reazione da parte delle famiglie. Poiché il consumo di medicinali è fortemente anelastico, tipici comportamenti di reazione vengono adottati da parte di quelle famiglie che si trovano ad acquistare medicinali di tasca propria e devono sobbarcarsi quella parte di spesa che lo Stato non ha stanziato per la Sanità.
Ciò può contribuire ad una tenuta straordinaria dei prezzi e può arrivare perfino a produrre una vera e propria variazione tendenziale.
In questi termini potrebbe essere schematizzata la tendenza che si è verificata nel '96, quando si è determinata una straordinaria tenuta sul fronte dei prezzi, registrandosi, al contempo, una crisi delle grandi imprese, con aspetti di grande rilievo.
In tale periodo si è notata una forte flessibilità delle imprese esportatrici, una diminuzione dell'indebitamento e, per la prima volta dopo il 1992 e ‘93, anni di profonda recessione, si è registrato un saldo primario attivo, segno evidente di un comportamento virtuoso che nei sei anni successivi ha portato l'Italia ad entrare nella seconda fase della Unione Economica e Monetaria Europea.
Nel quadro dell'evoluzione socio-economica del Paese degli ultimi anni il '97 porta l'ingresso in Maastricht, nell'Europa, accompagnato da un'inflazione ancora fortemente sotto controllo, non soltanto nel nostro Paese, ma nel complesso dell'Europa. Una situazione che troviamo anche nel resto del mondo, fatta eccezione per paesi quali il Brasile, la Corea o la Tailandia, dove le condizioni economiche influenzano anche questi indicatori. In generale, ci troviamo di fronte ad una situazione alimentata virtuosamente, in cui l'inflazione è fortemente sotto controllo e che, tuttavia, presenta controindicazioni: dall'aumento dei prezzi delle materie prime ad una forte diminuzione dei consumi da parte delle famiglie, che ovviamente non spingono il mercato a reagire in termini di prezzo.
Il '97 è anche l'anno dell'Eurotassa, l'anno della diminuzione degli interessi sui titoli. Un dato, quest'ultimo, che se da una parte può essere considerato positivo perché ha consentito di ridurre il rapporto indebitamento-PIL, d'altra parte, ovviamente, ha causato la contrazione di una risorsa delle famiglie che investivano in Bot, valutata nell'ordine di 20.000 miliardi. E' ovvio, infatti, che tutto quello che è diminuito sul fronte degli interessi passivi relativi al debito pubblico ha influito sul risparmio della famiglia italiana venendo a mancare di quella parte che veniva acquisita sotto forma di interessi attivi sui Bot e reinvestita. Probabilmente qualcuno avrà avuto l'avventura, nella sua vita, di comprare Bot e sa che gli interessi maturati, in genere, non venivano ritirati ma, in genere, reinvestiti.
Questi esempi indicano come la nostra attività sia rivolta principalmente allo studio e all'analisi di realtà economico-sociali complesse, al fine di poter contribuire alla comprensione delle problematiche emergenti di maggiore rilievo, sia in ambito nazionale che internazionale.


Nel suo intervento introduttivo il dott. Zuliani ha esposto, in via generale, come l'informazione statistica possa contribuire a conoscere i fenomeni che ci circondano e soprattutto ha evidenziato come tale conoscenza possa indicare le linee di tendenza per gli sviluppi a venire.
Quali sono, in particolare, le caratteristiche del Rapporto annuale che l'ISTAT presenta annualmente alla Camera dei Deputati e quali gli elementi più significativi che caratterizzano il nostro Paese, sia dal punto di vista economico che sociale?


Buratta - Lo spirito del Rapporto annuale è quello di cercare di aggiornare il Paese, le istituzioni, i cittadini e la comunità scientifica sui cambiamenti rilevanti in atto nell'economia, nella società, nel mondo delle istituzioni, e pertanto ci consente, di anno in anno, di affrontare moltissimi problemi che possono essere ricondotti ad una visione d'insieme quando li riconsideriamo in un arco di tempo più lungo.
Per esempio, osservando i dati dal '92 al '98, possiamo farci l'idea di un Paese che è sulla via del cambiamento, anche sostanziale, che riguarda non solo il suo apparato produttivo, ma anche la sua struttura sociale; un cambiamento che è difficile da apprezzare anno dopo anno, ma che esce fuori alla distanza.
In proposito possiamo affermare che, dal punto di vista economico, alcuni elementi di fondo sono abbastanza noti perché fanno parte dell'informazione quotidiana.
Per quanto concerne l'evoluzione sociale, invece, il discorso viene affrontato meno quotidianamente, anche perché il concetto è di per sé molto più complesso.
La società italiana è convenzionalmente vista come una società poco dinamica. Questa è l'impressione che molto spesso osservatori, anche internazionali, hanno tratto dall'analisi delle nostre condizioni di vita, partendo prevalentemente da considerazioni sulla famiglia.
La famiglia italiana è, secondo alcuni, l'asse centrale della nostra organizzazione sociale; secondo altri, invece, è un nucleo che non evolve e che in qualche modo appesantisce anche le dinamiche economiche, perché, ad esempio, è una famiglia che trattiene al proprio interno molte attività produttive.
In altri Paesi - ci riferiamo anche a realtà molto diverse, come gli Stati Uniti - una grande quota di attività di servizi viene gestita sul mercato (ad esempio, le attività connesse alla cura delle persone, all'occupazione del tempo libero, alla ristorazione ecc.) e generalmente attivate da una domanda cosiddetta familiare, sono, cioè, le famiglie ad acquistare, sul mercato, servizi.
Nella realtà italiana questo fenomeno è molto meno forte, molto meno accentuato, in quanto la famiglia italiana svolge al suo interno buona parte di queste attività. In pratica, sono le donne delle famiglie italiane che svolgono una grande quantità di questo lavoro, che è un lavoro di cura ma anche un lavoro di servizio. In tal senso si capisce come la famiglia non sia solo una realtà sociale ma abbia anche, attraverso i propri comportamenti e la propria organizzazione, delle ripercussioni economiche rilevanti.
Quando si parla di evoluzione sociale, quindi, è inevitabile andare ad osservare i rapporti intrattenuti dai soggetti nella società perché spesso essi costituiscono la premessa a cambiamenti economici.
La famiglia italiana, in generale, viene considerata una famiglia statica, che si prende cura dei figli, dei familiari più deboli, degli anziani. Per quanto concerne la struttura poi, poco sarebbe cambiato: si ha la coppia tradizionale con padre lavoratore, madre casalinga, figlio studente e adesso, molto spesso disoccupato.
Il Rapporto annuale ha consentito di capire che questa immagine costituisce ormai un falso stereotipo e non corrisponde più al vero, innanzitutto perché gli equilibri all'interno della famiglia stanno cambiando. Per quanto concerne i coniugi, ad esempio, la tradizionale combinazione padre occupato, madre casalinga, nelle generazioni più giovani è fortemente mutata. Ci troviamo, infatti, di fronte ad una situazione in cui la maggioranza delle donne lavora e quindi vi sono famiglie dove entrambi i coniugi sono occupati, le cosiddette famiglie "a doppia carriera".
Ho volutamente parlato di mutamenti che si evidenziano nelle generazioni più giovani perché se volessimo registrare i cambiamenti sociali nel tempo, senza fare riferimento alle diverse generazioni, non riusciremmo a cogliere appieno le mutazioni tendenziali in atto, apprezzandone tutte le sfumature. In pratica, se guardassimo ad una media generale, comprendente tutte le generazioni - rifacendoci, ad esempio, alla media delle famiglie italiane in cui sia i padri che le madri lavorano o se guardassimo quante sono, in media, le coppie in cui l'uomo è più istruito della donna - ci accorgeremmo che l'immagine che ne esce è più vicina a quella tradizionale di cui parlavo sopra.
Tuttavia, se vogliamo guardare al futuro - e qui facciamo soprattutto un lavoro per costruire scenari futuri - non è certamente utile prendere in considerazione i cosiddetti "stock", che rappresentano situazioni di media generale, aggregando generazioni che nel nostro Paese evidenziano comportamenti così diversi fra loro.
Questo tipo di considerazioni va sicuramente applicato anche alle dinamiche demografiche, argomento al quale ritengo importante dedicare una parte del mio intervento. Quando guardiamo all'evoluzione demografica, infatti, l'unica ottica che ci consente di guardare al futuro è quella di prendere in considerazione le diverse generazioni. Al riguardo, emerge che nel nostro Paese - nell'arco di pochi anni, a partire dal secondo dopoguerra e soprattutto negli anni '60 e '70 - si è verificato un profondo cambiamento culturale e sociale che produrrà i suoi effetti nel prossimo futuro.
La scolarizzazione di massa, per esempio, è sicuramente uno degli eventi che ha generato maggiori cambiamenti, fra cui quelli che riguardano le giovani generazioni femminili e che hanno portato ad un ingresso generalizzato delle donne nel mondo del lavoro, con un livello di istruzione che spesso è, oggi, superiore a quello dei loro partners. Un'evoluzione - che si accompagna anche ad un mutamento della struttura familiare - che risulta molto evidente soprattutto se si guarda alle generazioni nate tra gli anni '50 e '70.
Nel nostro Paese, inoltre, nell'arco di pochi anni - come documenta il Rapporto - sono aumentate le convivenze di fatto. Si è passati da 200.000 a 300.000 coppie conviventi, un dato che può sembrare ancora irrilevante se confrontato alla realtà di altri Paesi (ad es., Danimarca e Francia), dove le coppie conviventi hanno una tradizione molto più lontana nel tempo.
Il dato da prendere in considerazione è l'accelerazione di ampia portata del fenomeno in un arco di tempo molto breve, perché tenendo conto di ciò si può capire che si sta innestando un cambiamento.
Un altro grande cambiamento è rappresentato dalla crescita del numero delle famiglie che si formano dopo la rottura del vincolo coniugale. Si tratta di un fenomeno abbastanza recente per il nostro Paese dove, fino ad ora, le famiglie cosiddette "da rottura di unione coniugale" erano pochissime, anche perché la legislazione sul divorzio, sulla separazione è abbastanza recente.
Ciò è testimonianza di come i cambiamenti istituzionali o normativi generino cambiamenti sociali, fra i quali possiamo certamente annoverare la crescita del numero delle famiglie costituite da padri o madri soli che vivono con i propri figli. Mi riferisco a coniugi separati o divorziati, perché anche in passato c'era una percentuale di famiglie costituite da un solo genitore con uno o più figli o da una persona sola, ma si trattava per lo più di vedovi ed, ancor di più, di vedove.
Fanno parte di questo gruppo anche le famiglie cosiddette "ricostituite", forse le più complesse dal punto di vista affettivo, in cui uno od entrambi i coniugi fanno confluire nella nuova unione i figli avuti in precedenza; si tratta, quindi, di famiglie in cui c'è un genitore "biologico" ed un genitore "sociale" e figli che convivono con fratelli e/o sorelle adottive.
La famiglia italiana è dunque, da un lato, soggetta a rapidi mutamenti, dall'altro converge verso un "modello europeo", - scostandosi sempre di più dal modello classico: padre, madre e figli piccoli - nel quale si inseriscono diverse tipologie, fra cui le famiglie al cui interno convivono più generazioni.
La scansione classica e finora conosciuta del ciclo di vita individuale e familiare prevede che intorno ad una certa età i giovani abbandonino la famiglia, costituiscano un proprio nucleo familiare andando a vivere per conto proprio, poi abbiano dei figli, eccetera.
Questo ciclo standard in Italia è andato, nel corso degli ultimi anni, diradandosi.
Oggi ci troviamo di fronte ad un fenomeno, tutto italiano, che sta assumendo proporzioni molto elevate: la crescita del numero di famiglie in cui vivono figli adulti, che restano con i genitori fino intorno ai 35 anni.
Questo ci differenzia dal resto dei Paesi europei ed è in parte il riflesso di una situazione economica che, come abbiamo visto, ha portato anche ad una crescita rallentata del prodotto, quindi ad una crescita dell'economia senza una crescita dell'occupazione. In parte, ma solo in parte, la conseguenza di questa dinamica economica è il fatto che i figli rimangono molto di più in famiglia.
In Italia, è noto a tutti, abbiamo uno scarso livello di politiche in favore della famiglia, basti pensare che in altri Paesi europei i ragazzi a 20/25 anni possono allontanarsi dalla famiglia perché possono contare su un sostegno pubblico, mentre in Italia questo tipo di intervento è pressoché assente.
Un fenomeno come quello sopra descritto, che potrebbe sembrare veramente poco importante, è in realtà gravido di conseguenze. Ad esempio il fatto che i giovani restino in famiglia significa che quando ne escono hanno fra i 30 ed i 35 anni, con la conseguenza, per le donne, di un innalzamento dell'età della riproduzione. Questo si verifica anche perché in Italia, a differenza di altri Paesi, le nascite avvengono quasi esclusivamente all'interno di un nucleo coniugale.
Il fatto che i giovani ritardino l'uscita dalla famiglia significa che si ritarda il ciclo di fecondità, quindi la nascita dei figli è sempre più concentrata verso soglie di età in continua crescita, e stanno ulteriormente crescendo, attestandosi attualmente intorno ai 30 anni, con uno scarto di circa 2 anni tra uomini e donne, naturale conseguenza della differenza di età tra i coniugi.
Conseguenza del ritardo nei cicli riproduttivi è il crescente rischio di malformazioni del feto alla nascita, perché - è una legge biologica - il rischio di malformazione cresce con il crescere dell'età della madre (soprattutto quando si tratta del primo figlio) e cresce in misura esponenziale oltre la soglia dei 35 anni. Il fatto che, al tempo stesso, siano entrate in uso tecniche di diagnosi precoce molto più evolute, non risolve comunque la realtà di questa ineludibile legge biologica.
Analizzando il fenomeno in altri suoi aspetti, si può notare che i giovani cominciano ad avere una propria autonomia economica spostata molto in avanti nel tempo, quindi cominciano a produrre reddito in età più avanzata rispetto a quanto avveniva una volta.
In proposito, si parla di piramide dell'età, oppure di indice di vecchiaia o di indipendenza: due indici molto importanti, se guardati in prospettiva, perché in qualche modo danno il quadro di quale sia la consistenza della base produttiva rispetto alla quota di popolazione che potrà esser sostenuta da tale base.
Anche supponendo che la base produttiva sia ampia - e non è il caso del nostro Paese dove, come noto, si registra al tempo stesso un fortissimo declino di natalità - se l'età in cui si entra nel mondo del lavoro si sposta molto in avanti negli anni, la base produttiva è solo apparentemente ampia, in realtà quelli che possono sostenere le spese sociali sono un numero inferiore rispetto al passato.
Questo ritardo nella formazione delle famiglie è anche conseguenza di una mentalità emergente fra i giovani, che sempre di più aspettano di trovare lavoro entrambi prima di formare una nuova famiglia. In passato, invece, bastava che trovasse lavoro uno dei due - in genere, l'uomo - per decidere di sposarsi ed andare a vivere per conto proprio.
La realizzazione di tutte queste condizioni significa certamente una situazione di garanzia per la coppia in termini di stabilità. Tuttavia questo approccio, considerato dal punto di vista delle dinamiche sociali, comporta ritardi crescenti nella formazione di nuove famiglie e questo trend si riflette sull'evoluzione demografica del nostro Paese in termini di calo delle nascite con prevedibili conseguenze, e, in prospettiva, anche in termini di rapporto fra persone anziane e giovani. In tal senso, ad esempio, il calo della natalità assottiglia la base di persone giovani su cui potranno contare i futuri anziani o comunque aumenterà il numero di persone che avrà bisogno di assistenza.
Quindi le generazioni di futuri anziani, si dovranno aspettare un futuro di minore assistenza da parte della famiglia e se, all'intervento familiare per la cura degli anziani e dei bisognosi, non verrà associato l'aiuto di servizi esterni, è chiaro che - di qui a vent'anni, di qui a trent'anni - potremmo trovarci in una situazione di emergenza sociale.
Si aggiunga a ciò che le donne delle generazioni passate erano deputate a rimanere in famiglia ed a svolgere personalmente tutto il carico di lavoro di cura e di assistenza, al contrario le donne delle ultime generazioni, occupate in attività di lavoro esterno, non potranno più costituire la base del sostegno sociale.
Il nostro Paese si orienta nel senso di trovare un bilanciamento del proprio stato sociale, basandosi molto di più sulla monetizzazione dell'aiuto che sull'offerta di servizi.
Ciò assume rilievo dal punto di vista degli equilibri sociali perché la monetizzazione funziona quando si hanno dei referenti, all'interno delle famiglie, a cui dare sussidi, inoltre va considerato che queste indennità sono in realtà minime, devono intendersi come integrazioni al reddito di nuclei familiari in difficoltà.
Laddove questo qualcuno non ci fosse più - e, ripeto, dall'evoluzione in corso del quadro demografico e sociale dobbiamo aspettarci che saranno sempre meno le famiglie autosufficienti da questo punto di vista - allora la monetizzazione di cui sopra sarà sempre meno efficace.
Pertanto, quando parlando di trasformazioni sociali si afferma che la società italiana cambia poco, in realtà non si presta attenzione ai cambiamenti di rilievo intervenuti e che, guardati nell'ottica delle generazioni, assumono una consistenza straordinaria.
Tale quadro evolutivo sociale in parte è causa, in parte è effetto del particolare assetto del nostro mercato del lavoro, perché alcuni dei cambiamenti poco visibili sono proprio quelli che derivano dall'intreccio tra famiglia e mercato del lavoro.
Ad esempio siamo stati abituati, per anni, anzi per decenni, ad una struttura economica e produttiva centrata sul famoso lavoro dipendente svolto per tutta la vita.
Su questo tema, si è in presenza di un cambiamento in atto ed i cambiamenti, nel mondo del lavoro, si ripercuotono sulla evoluzione demografica.

Barbieri - Mi pare fondamentale l'intreccio esistente tra aspetti sociali ed aspetti economici. Desidero sottolineare che, in realtà, queste interazioni tra fenomeni demografici, fenomeni sociali e fenomeni considerati economici in senso stretto sono in realtà così forti che non è facile, e forse non è nemmeno opportuno, individuare quali siano i nessi causali.
Un esempio è quello della piramide della popolazione e dell'indice di indipendenza. La mia collega spiegava come l'evoluzione demografica, in altri termini il prolungamento della vita media, lo spostarsi in avanti del periodo formativo, fino all'istruzione superiore e all'Università, il ritardo rispetto al passato, non si riverbera solo sull'età del matrimonio, ma comporta che la fascia produttiva - cioè quella fascia di popolazione che produce reddito e mantiene tutto il resto della popolazione - si vada assottigliando.
Un altro modo di studiare questo fenomeno è quello squisitamente economico. Esso mostra che la crescita della produttività, che è una crescita secolare in continua e forte accelerazione, si manifesta negli ultimi anni con la creazione di maggiori beni e servizi.
Ciò comporta una crescente produzione di utilità - quindi si parla ancora di maggiori beni e servizi - in favore della popolazione e, come conseguenza, l'aumento della produttività porta all'aumento del prodotto.
Considerata da un altro punto di vista, l'accresciuta produttività negli ultimi anni ha comportato una riduzione della quantità di ore di lavoro sostanzialmente necessaria per produrre la stessa quantità di beni. In tale fenomeno si intrecciano in modo evidente economia e scienze sociali. Le risultanze sono ben note non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Dinanzi a tale fenomeno si potevano teoricamente intraprendere un'infinità di strade, ottenendo diverse possibili soluzioni. Ad esempio, della riduzione del tempo di lavoro necessario a produrre l'insieme di beni e servizi di un Paese avrebbero potuto godere i singoli lavoratori con la riduzione della settimana lavorativa o con l'aumento delle ferie, tutte misure adottate nel tempo ma in misura inferiore rispetto a quanto sarebbe stato possibile.
Un'altra conseguenza del fenomeno è la diminuzione della quantità del tempo lavorativo rispetto alla vita lavorativa delle persone e la contrazione del numero di individui che partecipano a tale attività lavorativa. Se è vero, infatti, che il periodo formativo giovanile si è allungato, d'altra parte è indiscutibile che è sempre meno necessario disporre di forza-lavoro non qualificata.


Alla luce del puntuale ed articolato trend evolutivo preso in esame nel corso di questo dibattito, quali sono i settori nei quali potranno verificarsi cambiamenti importanti e secondo quali modalità, nel futuro prossimo del nostro Paese?

Buratta - Lo scenario individuato apre un nuovo fronte su cui misurare l'evoluzione socio-economica in atto e capire quale cambiamento dobbiamo aspettarci nel futuro.
è un cambiamento che nasce dalle mutate condizioni demografiche ed in parte è conseguenza dei mutamenti prodotti sulla società e sulla cultura dall'apparato produttivo, o meglio dalla tecnologia, che oggi consente di combinare in maniera più efficiente le risorse per realizzare una certa quantità di prodotto. Altro aspetto da considerare è come questo cambiamento del mondo del lavoro si ripercuota sulle famiglie.
Da un lato possiamo dire che oggi si registra quello che potremmo definire un elevamento di tutti i lavori rispetto al passato, un cambiamento di contenuto professionale, per cui tutto il lavoro è, oggi, mediamente più qualificato, comportando anche una diversa qualità della vita.
D'altra parte è anche vero che il lavoro, nel cambiare di qualità e di contenuto, ha perso sempre di più quella parte di attività considerata di routine, quella più facilmente replicabile, sostituita nel tempo da macchinari sempre più sofisticati.
Questa perdita di una quota di lavoro ha interessato soprattutto l'industria e, in misura minore, i servizi.
Da una parte, quindi, abbiamo un innalzamento della qualità del lavoro, dall'altra, invece, si registra un mutamento della composizione del lavoro, che si presenta sempre meno stabile, sempre meno "unico nella vita" e quindi sempre più flessibile.
Flessibilità del lavoro significa lavorare con orari diversi, fare diversi lavori nel corso della vita, avere contemporaneamente anche più lavori. La flessibilizzazione del lavoro sembra una tendenza inarrestabile, propria non solo della nostra economia e del nostro apparato produttivo ma di tutti i Paesi, qualunque sia il livello di sviluppo.
Le situazioni individuate, emerse nel Rapporto dello scorso anno, hanno evidenziato, ad esempio, l'esistenza di un modello che chiameremo "avanzato", in cui il lavoro flessibile - termine la cui connotazione positiva o negativa indica un lavoro meno stabile, meno configurato tradizionalmente - si accompagna ad una situazione economicamente buona dell'insieme della famiglia. Questo tipo di lavoro, che molto spesso è il secondo lavoro della famiglia e che integra una base stabile, significa anche, tutto sommato, una diversa gestione dei tempi di vita, basti pensare che in alcuni Paesi il lavoro delle donne è prevalentemente lavoro part-time.
In Italia questa combinazione, soprattutto al Nord ed in una parte del Nord-Est, si configura come combinazione virtuosa, in cui il secondo lavoro è appunto il lavoro integrativo e la flessibilità di questo lavoro consente una migliore gestione della famiglia, un migliore equilibrio all'interno della stessa.
D'altra parte, invece, se l'unico lavoro che c'è in famiglia è un lavoro part-time, ossia un lavoro a tempo determinato o soggetto ad interruzioni, è evidente che questo non significa un aumento di qualità della vita, bensì una perdita di sicurezza della famiglia.
Nel Mezzogiorno avviene frequentemente che questo sia l'unico lavoro della famiglia e si accompagna ad una realtà familiare più seria, nel senso che si tratta, in genere, di famiglie più numerose.
Non è un caso che il rischio povertà abbia in Italia ormai questo doppio binario.
Al Nord - pensiamo alla Liguria e ad alcune zone ad elevato invecchiamento della popolazione - i poveri sono rappresentati dagli anziani, in particolare dalle anziane, ossia da quelle persone in età avanzata che non hanno una storia lavorativa alle spalle e/o godono di misere pensioni, e quindi oggi si trovano sprovviste di un serio sostegno economico.
Al Sud le fasce più deboli sono rappresentate dai bambini perché sono le famiglie numerose quelle a rischio di povertà e, guardando al futuro - in un quadro di cambiamento in cui la flessibilizzazione del lavoro sembra un sentiero ormai disegnato - questo fenomeno potrebbe avere effetti dirompenti.
In proposito, è possibile sottolineare ancora una volta come l'intreccio tra economia ed equilibri sociali non sia poi così scontato e come, soprattutto nella realtà del nostro Paese, non abbia effetti univoci o facilmente sintetizzabili con delle medie.
La classica divisione in due del Paese non è più molto accettabile e va rivista, considerato che ormai vi sono zone del Sud che stanno dando importanti segnali di sviluppo, anche in termini di comportamenti sociali e culturali. Si pensi, ad esempio, alla Sardegna, per molti aspetti più simile alla Toscana ed all'Italia centrale che non alla Calabria.
Questo è un Paese che in futuro sarà sempre meno prevedibile rispetto ad un passato lontano, perché oggi il cambiamento è soprattutto un cambiamento generazionale, le cui conseguenze non sono solo demografiche, ma comprendono anche molti aspetti sociali ed economici.
Il cambiamento in atto, in particolare quello generazionale, è poco visibile se considerato nell'ambito della media generale, ma è molto forte se lo analizziamo in termini di aspettativa.

Barbieri - L'analisi condotta per individuare i cambiamenti evolutivi in atto non può prescindere dal sottolineare la stretta correlazione tra scienze economiche e sociali.
Vorrei aggiungere alcune considerazioni sul tema del lavoro flessibile, atipico, fonte di grandi dibattiti non ancora esauriti, ed in particolare vorrei parlare sia dell'impatto che questo ha sulle dinamiche di occupazione/disoccupazione, sia delle conseguenze per le famiglie, sia infine delle differenze che emergono a livello territoriale.
Per quanto riguarda l'argomento lavoro, il dibattito è ancora aperto sul tema della flessibilità e sulla sua scarsa applicazione in Italia.
In realtà, riferendosi alla popolazione, una cosa è prendere in esame lo stock, cioè la massa dei lavori esistenti, ed un'altra cosa è guardare ai flussi, cioè al ricambio.
In Italia prevale ancora, nell'ambito del lavoro dipendente, il posto fisso. Al riguardo occorre tenere presente che nel nostro Paese - anche rispetto agli altri Paesi dell'Unione Europea - si registra una fortissima percentuale di lavoro autonomo, che è un fenomeno completamente a sé stante e, all'interno del lavoro autonomo, ovviamente non si può parlare di posto fisso.
Se vogliamo, invece, guardare ai cambiamenti, cioè prendere in considerazione i nuovi entrati nel mondo del lavoro e quindi i nuovi contratti che si stipulano in Italia per il lavoro dipendente, ci accorgiamo come ormai da alcuni anni la maggior parte dei nuovi contratti di lavoro siano di natura flessibile.
In proposito si può osservare che le piccole imprese hanno sempre utilizzato strumenti di flessibilità. Questo significa che se vogliamo studiare come stanno le cose adesso, nella predisposizione di scenari simulati, è realistico affermare che al momento non c'è una flessibilità.
Tuttavia, considerato che c'è una forte richiesta di maggiore flessibilità, non è esatto guardare agli stock ma al ricambio per verificare se le modifiche normative introdotte favoriscano o meno questo tipo di flessibilità.
Noteremo allora - e si tratta di informazioni ormai documentate nel Rapporto annuale - che la maggioranza dei nuovi ingressi sul mercato del lavoro avviene con forme di contratto flessibili, atipiche.
Questo vuol dire che le normative vigenti stanno funzionando, anche se ci vorrà del tempo prima che, prendendo in esame la dimensione dello stock, la maggioranza dei lavori risultino lavori flessibili.
D'altra parte l'obiettivo può essere quello di migliorare o di intensificare gli incentivi per queste forme di lavoro in modo da rendere più rapido il processo di transizione verso forme di lavoro più flessibile.
Ritengo, inoltre, importante sottolineare un secondo aspetto, quello della distinzione tra flessibilità interna e flessibilità esterna.
Per flessibilità esterna si intende quella che riguarda le modalità di assunzione e di licenziamento dal posto di lavoro, o per meglio dire di fine rapporto di lavoro, e può avvenire per scelta dell'una o dell'altra parte; per flessibilità interna si intende l'insieme delle modalità connesse all'organizzazione ordinaria del lavoro all'interno dell'azienda.
Per quanto riguarda la prima tipologia di flessibilità viene confermata la diagnosi tradizionale, dall'analisi si evince, infatti, che esiste una forza di inerzia che ostacola la flessibilità esterna.
Per quanto riguarda la flessibilità interna, invece, dall'analisi della problematica si nota che le imprese italiane l'hanno perseguita in modo sistematico.

Buratta - In proposito vorrei integrare quanto detto portando dei dati numerici relativi all'indagine sulla flessibilità del lavoro.
Dall'indagine del '96 risulta che l'80% circa delle grandi imprese, quelle con oltre 500 addetti, utilizza regolarmente il lavoro a turni; se a queste aggiungiamo la quota di imprese che lo usa saltuariamente, ossia nei momenti di maggiore intensità di lavoro, arriviamo quasi al 90%.
Continuando a parlare di grandi imprese, il lavoro notturno è utilizzato nel 53% dei casi regolarmente ed in un altro 21% circa di casi saltuariamente; il lavoro festivo nel 27% dei casi regolarmente, nel 39% dei casi saltuariamente; il sabato lavorativo viene utilizzato nel 41% dei casi con regolarità e circa nel 36% dei casi quando occorre, quindi saltuariamente. Lo straordinario, che è la misura più classica di flessibilità interna, è utilizzato regolarmente dalle grandi imprese nel 30% dei casi, nel 67% dei casi quando occorre. Il tele-lavoro - che è ancora una forma di lavoro molto marginale nel nostro Paese e che, d'altra parte, non ha avuto un grande impatto in nessuna delle economie avanzate - è utilizzato in misura molto ridotta, intorno all'1%, dai chirurghi.
Per quanto concerne poi le imprese di dimensioni minori queste percentuali si abbassano un poco, ma è comunque rilevante il ricorso a quelle forme di flessibilità interna di cui si parlava sopra. Probabilmente ciò è dovuto in parte alla capacità di adattamento del sistema, alla capacità di crescita senza occupazione, considerato che questo tipo di strumento è la risposta congiunturale tipica per incrementare la produzione senza, tuttavia, creare lavoro aggiuntivo.

Barbieri - Vorrei aggiungere alcune considerazioni sullo specifico argomento, a chiarimento dei dati sopra esposti.
In primo luogo va evidenziato che sono le grandi imprese ad utilizzare queste forme di flessibilità interna rispetto alle imprese medie e piccole, che preferiscono percorrere altre strade per arrivare alla flessibilità interna.
In secondo luogo è opportuno notare che l'utilizzo della flessibilità interna probabilmente non spiega tanto i motivi per cui abbiamo una crescita senza occupazione, ma piuttosto spiega i motivi per cui ci siamo arrivati. E' possibile constatarlo guardando indietro, all'insieme dei Rapporti annuali, e vedendo che, dopo la recessione (tra la fine del 1992 e per tutto il 1993) e dopo i primi sintomi di ripresa, consolidatisi nel '95, abbiamo dovuto aspettare molto, moltissimo, per registrare una crescita dell'occupazione, che tuttavia non si è accompagnata ad una diminuzione della disoccupazione.
C'è quindi un ritardo, che in parte può essere considerato un ritardo fisiologico; è normale, infatti, che nella fase di ripresa le imprese nutrano scarsa fiducia nel futuro, soprattutto per quel che concerne la durata e la sostenibilità della ripresa. Le imprese preferiscono, dunque, fare fronte all'incremento della domanda con l'intensificazione della flessibilità interna, di cui è tipico esempio il lavoro straordinario, il lavoro festivo, il sabato lavorativo, mentre risulta più complicato introdurre turni di lavoro.
Le alternative proposte in materia di flessibilità hanno un grado crescente di complessità: lo straordinario è di facile introduzione perché consiste nell'intensificare la produzione durante il periodo di attività consueto dell'unità produttiva; il sabato o la festività lavorativa sono più complessi da introdurre, anche se richiedono semplicemente l'apertura degli impianti in un differente periodo; il lavoro a turni, infine, implica un cambiamento pesante dell'organizzazione del lavoro all'interno dell'azienda.
Tuttavia tali modalità di risposta delle imprese comportano il rischio - e questo lo affermo per completezza dell'attività di costruzione dello scenario - che la flessibilità interna diventi una nemica della crescita dell'occupazione, nel senso che, al di là di una certa soglia, purtroppo incerta, la possibilità di incrementare la produzione utilizzando maggiormente la forza-lavoro esistente, può diventare un disincentivo ad assumere nuove leve.
Terzo tema su cui soffermare l'attenzione è quello relativo ad un mercato del lavoro fortemente segmentato tra insiders ed outsiders. Questa tematica presenta una chiave di lettura leggermente diversa, ma in realtà collegata, rispetto a quanto abbiamo osservato riguardo alla flessibilità. Infatti, in relazione ad un tipo di lavoro fortemente fungibile - come si direbbe in termini economici ed in relazione a certe attività poco qualificate, per cui l'offerta di lavoro è abbondante - la flessibilità rappresenta certamente un vantaggio per il datore di lavoro.
Diverso è il caso di lavoro qualificato, che richiede un investimento formativo e l'accumulazione di un know how che è patrimonio della persona e fa parte della sua professionalità. In questo caso la flessibilità rappresenta un vantaggio nelle mani del lavoratore, l'impresa ha convenienza a tenersi le professionalità che ha contribuito a far crescere - talora con investimenti non agevolmente quantificabili, riconducibili al training on the job, in altri casi sono individuabili e quantificabili, nati da corsi di formazione, investimenti in stages ecc.
Questo fenomeno porta ad un altro risultato, quello di creare, anzi di ricreare - perché si tratta di un fenomeno già noto prima dell'avvento della produzione di massa, sviluppatosi per le professioni e per le professionalità soprattutto di natura terziaria - "aristocrazie professionali" fortemente desiderate, fortemente richieste e finanche contese dalle imprese.
Ci riferiamo non solo al manager, ma anche al cosiddetto professional o manager work - utilizzando termini propri della letteratura sociologico-economica internazionale - che opera anche nella produzione industriale standard.
In tutti i Paesi, Italia compresa, assistiamo ad una crescita di queste categorie professionali, mentre sostanzialmente si verifica una stasi, una diminuzione delle categorie intermedie che includono non solo le professioni terziarie, cioè i colletti bianchi a più bassa qualificazione, ma anche "i colletti blu ad elevata specializzazione", cioè gli operai o gli operatori di macchine.
Considerato che, in base a questo trend, si crea una forte e crescente componente di outsiders nel mercato del lavoro, occorre considerare cosa succede ai lavoratori appartenenti a quelle categorie espulse dal mercato del lavoro perché non più richieste.
Alcuni degli appartenenti alle fasce intermedie trovano possibilità di rioccupazione proprio attraverso i meccanismi della flessibilità, altri sono espulsi definitivamente dal mercato del lavoro e non trovano più possibilità di occupazione.
Questo è un aspetto importante della disoccupazione europea ed italiana: l'esistenza di questa fascia di outsiders che hanno difficoltà a trovare lavoro e che non sono giovani ma prevalentemente persone di età media, cinquantenni, che perdono il lavoro e non lo ritrovano più, i cosiddetti "disoccupati di lunga durata".
Le conseguenze sociali di questi due profili di disoccupazione sono fortemente diverse. Per quanto riguarda i giovani, ad esempio, le difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro possono trovare temporanea compensazione nella famiglia e comunque, prima o poi, con un aggiustamento delle "pretese di occupazione" del giovane e con l'eventuale crescita della sua qualificazione professionale - attraverso eventuali percorsi formativi di vario genere - le prospettive possono diventare migliori, soprattutto in determinate aree geografiche. Per quanto concerne, invece, il cinquantenne espulso dal mercato del lavoro, questi ha scarsa possibilità di trovare una nuova occupazione.
Il fenomeno è rilevante, considerato che la incidenza di coloro che sono disoccupati da 12 mesi è intorno all'8%, e rappresenta un trend in continua crescita.

Buratta - A questo proposito è necessario soffermarsi su un fenomeno ben noto, quello del caso in cui la crescita dell'occupazione non si accompagna al calo della disoccupazione. Si tratta di un assunto difficile - che può sembrare una contraddizione ed in realtà non lo è - che in Italia sta avendo adesso massima espressione (in altri Paesi europei rappresenta un cambiamento avvenuto molti anni addietro) poiché ancora non si è stabilizzato l'equilibrio tra forze di lavoro e non, cioè fra persone che si mettono sul mercato per lavorare e persone che invece sono fuori dal mercato perché si sono ritirate o perché non vogliono lavorare.
Poiché ci interessano le prospettive e parliamo di scenari futuri è giusto guardare agli aspetti evolutivi del fenomeno. Per esempio nel corso degli ultimi anni il totale delle forze lavoro è continuamente cresciuto, evidenziando un saldo positivo. Tra il '96 ed il '97, ad esempio, è cresciuto di circa 50.000 unità, il che significa che 50.000 persone si sono messe per la prima volta sul mercato.
Se guardiamo ai tassi di attività di uomini e donne, vediamo che nel nostro Paese il tasso di attività maschile è del 61% nel '97, dato che rappresenta la media degli uomini che sono sul mercato del lavoro perché lo cercano o perché sono già occupati. Lo stesso dato per quanto concerne le donne è attestato sul 34,8%.
Questo significa che c'è ancora un notevole divario tra uomini e donne, a parità di età, per quanto riguarda il rapporto con il mercato del lavoro, nonostante i progressi fatti ed il riequilibrio che c'è stato con le nuove generazioni.
In tal senso si registra una differenza sostanziale rispetto ad altri Paesi europei, soprattutto del Centro e del Nord Europa, mentre siamo più vicini, come profilo, ai Paesi mediterranei, quali Spagna e Grecia. Se nel futuro dovesse continuare l'attuale tendenza, che vede le donne immettersi in misura crescente nel mercato del lavoro, potremmo aspettarci un aggravamento della situazione dell'occupazione.
Alcuni, d'altra parte, evidenziano che le donne e gli uomini che entrano nel mercato del lavoro, a parità di età e di lavoro, attivano a loro volta una domanda di servizi diversa, quindi, la crescente quota di donne che in futuro cercherà occupazione porterà con sé anche una crescita della domanda di servizi, diventando promotrice di crescita occupazionale.
Nei Paesi del Nord-Europa, come la Svezia, in cui la situazione si è ormai stabilizzata e si è arrivati alla fase alta del ciclo, i tassi di attività tra uomini e donne si sono molto avvicinati.
In proposito, si parla di tre diversi modelli validi per l'Europa in relazione ai settori in cui l'occupazione femminile ha avuto maggiore crescita.
Sostanzialmente esiste un modello Nord-Europeo, che vede le donne occupate nel settore dei servizi pubblici, quindi una crescita dell'occupazione femminile "in qualche modo finanziata da politiche pubbliche". Poi ci sono i Paesi anglosassoni in cui la crescita dell'occupazione femminile si è realizzata con un grande ricorso al part-time, quindi con il ricorso ad occupazioni di tipo "flessibile". Infine c'è un modello "mediterraneo", in cui ancora esiste un grande divario tra partecipazione femminile e maschile al mercato del lavoro. Ciò rappresenta certamente un'incognita in un'ottica di scenari futuri, un elemento non secondario se si intende guardare alla sostenibilità di un certo modello di sviluppo negli anni a venire.


In un contesto così composito - analizzato sinora tenendo conto del ruolo svolto dalla famiglia, soprattutto alla luce delle sue peculiarità sociali - quali possono essere gli scenari di sviluppo di economia e società, secondo i modelli che l'analisi statistica ci propone?

Barbieri - è indubbiamente interessante ed utile completare le osservazioni sulle caratteristiche della famiglia osservandole in relazione agli aspetti squisitamente economici. Una caratteristica tipica del modello produttivo italiano è, infatti, la forte presenza di imprese piccole e piccolissime.
Si tratta di un fenomeno che gli economisti hanno difficoltà a spiegare, considerato che la nostra economia ha risultati comparabili a quelli di altre grandi economie europee, tuttavia, con una composizione delle imprese, quindi delle unità di base del sistema produttivo, completamente diversa.
Se vogliamo parlare di cifre, per dare un'idea di massima, in Italia si contano circa 4 milioni di imprese, escluse quelle del settore agricolo, una percentuale rilevante delle quali si avvale di meno di 20 addetti.
Secondo la corrente definizione europea l'impresa media è quella che conta fino a 250 addetti - si intende per addetti tutti coloro che sono a libro-paga, tutti coloro cioè che lavorano in modo continuativo all'interno dell'impresa, a prescindere dalla forma giuridica del rapporto di lavoro instaurato, mentre i dipendenti sono coloro che lavorano con un contratto di lavoro dipendente.
Di conseguenza, a livello europeo, viene considerata media l'impresa che conta fino a 250 addetti e piccola l'impresa che conta fino a 50 addetti. Sempre a livello europeo le imprese con meno di 10 addetti sono definite micro-imprese.
Questo fenomeno dipende da due fattori: il primo è la specializzazione settoriale, ovvero l'esistenza di settori di attività in cui solo la piccola impresa può sopravvivere. In termini economici si dice che esiste una dimensione minima ed efficiente, al di sotto della quale non conviene andare. Ovviamente questa dimensione minima ed efficiente cambia da settore a settore, ad esempio non è sicuramente conveniente un impianto siderurgico con 5 addetti, poiché la dimensione minima efficiente della siderurgia è la grande dimensione; al contrario, altri settori di attività in cui si è specializzata l'industria italiana - quali il tessile, l'abbigliamento, il mobilio, la meccanica fine - presentano una soglia minima efficiente sicuramente più bassa. Pertanto, il fatto stesso che l'Italia sia specializzata in tali settori di attività abbassa la dimensione di tutte le attività produttive italiane.
Occorre inoltre considerare che nel Paese c'è una forte presenza di imprese di piccola e piccolissima dimensione che operano nel settore dei servizi, non solo in relazione ai servizi tradizionali (le imprese attive nella distribuzione commerciale, siano esse negozi di alimentari o boutique), ma anche a servizi relativamente più evoluti, che si rivolgono al mondo delle imprese (studi professionali, quali agenzie di pubblicità oppure studi che operano nel campo della organizzazione aziendale, della consulenza, della logistica e così via).
Al riguardo, in una logica di scenari, è difficile dire se questo fenomeno costituisca un vantaggio od uno svantaggio per il sistema produttivo italiano. Si può affermare che è tradizionalmente considerato un punto di debolezza, perché lo sviluppo economico, ed in particolare lo sviluppo industriale, è passato - dalla metà degli anni ‘20 fino alla fine degli anni ‘70 - attraverso la crescita della concentrazione aziendale e della verticalizzazione della produzione, in altri termini tutte le fasi del processo produttivo hanno teso a ricongiungersi all'interno della medesima struttura industriale.
Tale tendenza è nata dalla forte spinta verso la produzione di massa, che richiedeva certezza degli approvvigionamenti di parti di semilavorati con determinate caratteristiche produttive. Al riguardo, risultava più economico e più sicuro, anche dal punto di vista strategico, unificare tutta la produzione all'interno della stessa impresa o dello stesso gruppo.
Esempio tipico di questa strategia produttiva la General Motors, che possedeva sia gli impianti siderurgici in cui veniva prodotto l'acciaio per le automobili, sia la catena di concessionari che provvedeva alla distribuzione ed alla vendita dei prodotti finiti.
Questo meccanismo è cambiato per motivi esterni, fra i quali ha avuto parte importante la crisi della grande impresa registratasi a livello mondiale a seguito di shock petroliferi come quelli degli anni '70. Non vanno inoltre sottovalutati, per aver modificato i parametri di convenienza, gli effetti dovuti all'introduzione di nuove tecnologie, in particolare dell'informatizzazione, che permette, fra l'altro, di abbattere i costi di trasporto e di gestire il settore logistico in modo informatizzato, consentendo la coordinazione della produzione di unità indipendenti.
Si tratta ovviamente di un processo ancora in corso, ed è un processo che in tutto il mondo sta portando in una direzione opposta rispetto a quella del passato. In primo luogo, rispetto al prevalere della produzione di massa, si registra oggi una tendenza verso una produzione che può essere adattata alle esigenze del consumatore, il termine tecnico è "customizzazione", un neologismo creato dal termine inglese customer, ossia cliente.
Nel momento, ad esempio, in cui si va a comprare una macchina nuova, a meno che la si comperi in una delle periodiche liquidazioni dei concessionari, sostanzialmente si va ad ordinare la "propria macchina", nel senso che è possibile sceglierne gli optional, personalizzandola fin nei minimi dettagli.
Questa tendenza esaminata dal punto di vista della domanda, trova un suo corrispettivo dal punto di vista della organizzazione aziendale in quell'insieme di operazioni che vanno sotto il nome di downswing out souring, cioè le imprese si concentrano sul loro core business, e quindi riducono le proprie dimensioni, avvalendosi di imprese dipendenti ma coordinate.
Se questo corrisponde al vero, il modello di impresa che è prevalso nel sistema produttivo italiano non costituirebbe più uno svantaggio, bensì un vantaggio competitivo, ossia l'Italia sarebbe nelle condizioni di aver già sperimentato, attraverso il sistema dei distretti industriali e mediante alcune caratteristiche del sistema produttivo, forme di coordinamento tra imprese che ora costituiscono un punto di forza.
Alla luce di quanto sopra esposto, il Rapporto annuale ha ripreso il dibattito che era sorto nei primi anni '80 ed ha esaminato i sintomi di queste tendenze a livello nazionale.
C'era un famoso libro di Bagnasco, intitolato "La Terza Italia", che individuava, al di là del tradizionale dualismo territoriale tra triangolo industriale sviluppato al Nord e Mezzogiorno in ritardo, una Terza Italia che era l'Italia del cosiddetto "modello Nord-Est-Centro". Si trattava di un'Italia in cui prevaleva il modello dei distretti industriali e di specializzazione, dei rapporti stretti su base territoriale tra piccole e medie imprese.
Naturalmente quando Bagnasco, sociologo più che economista, individuò questo modello emergente lo chiamò Terza Italia perché all'epoca costituiva un modello minoritario; nel nostro Rapporto annuale, esaminando i risultati strutturali delle indagini delle rilevazioni fatte sulle imprese e anche i risultati strutturali che emergono dai censimenti, abbiamo scritto: "La Terza Italia è diventata la prima".
I risultati del censimento intermedio confermano sostanzialmente questo modello di specializzazione. Nei diversi Rapporti annuali troviamo del resto altri sintomi che confermano questa tendenza, per esempio le imprese, ed in particolare le imprese localizzate in distretti industriali, hanno continuato ad esportare anche quando le condizioni per l'esportazione sono diventate più critiche.
Il modello, cosiddetto delle svalutazioni competitive, è stato praticato in Italia per molti anni, fino al 1987, e si basava su un meccanismo perverso. L'Italia aveva un tasso di inflazione più elevato di quello degli altri Paesi europei pertanto, quando la situazione del cambio diventava insostenibile, si procedeva alla svalutazione.
La svalutazione ridava certamente competitività alle esportazioni italiane e la crescita italiana riprendeva vigore, tuttavia assieme ad essa riprendeva vigore la domanda di importazioni - perché dipendiamo fortemente dall'estero per le materie prime e per l'energia - facendo reimportare nuova inflazione, con tutte le conseguenze negative connesse.
In seguito, per cinque anni - tra il 1987 ed il 1992 - non abbiamo più svalutato la nostra moneta, anzi era notoriamente sopravvalutata e le imprese italiane avevano difficoltà ad esportare. Dopo la recessione del ‘92-'93 e poi nuovamente alla fine del '94, c'è stata una svalutazione molto consistente della nostra valuta nei confronti delle altre valute europee con l'effetto di aumentare enormemente la competitività degli esportatori italiani, in quanto le merci italiane, a parità di condizioni, costavano all'estero il 35% in meno di quanto non costassero fino alla svalutazione.
Il timore era che la svalutazione del '92 rimettesse in moto quel meccanismo perverso sopra descritto, invece ciò non si è verificato per tre motivi.
Il primo motivo è di ordine internazionale e riguarda i prezzi delle materie prime in fase calante, tendenza che tuttora perdura (in proposito, va aggiunto che le materie prime si pagano in dollari e la nostra svalutazione è stata più forte nei confronti delle monete europee rispetto al dollaro, ciò ha permesso di non perdere competitività su quel versante).
Il secondo nasce da un cambiamento strutturale nel comportamento del terziario italiano, un'area che rappresentava un punto debole, in cui si creava inefficienza e quindi inflazione, dovuta alla mancanza di concorrenza internazionale, soprattutto per quanto concerne la piccola distribuzione.
La crisi del 1992-'93 ha provocato una forte ristrutturazione del terziario, che a sua volta ha innestato un meccanismo virtuoso per cui, in questa occasione, i servizi non sono stati un vettore di importazione o creazione di inefficienza o di inflazione.
Il terzo concerne le imprese italiane e la capacità dimostrata di saper esportare, in qualunque condizione, soprattutto nei settori in cui tradizionalmente l'impresa italiana è specializzata.
Quando poi il cambio si è stabilizzato e l'Italia ha intrapreso un tipo di politica che ha portato al reingresso nel sistema degli accordi europei di cambio e poi alla conquista dei parametri di Maastricht, le aziende italiane hanno continuato ad essere fortemente dinamiche perché proprio questo tessuto di piccole e medie imprese di distretto, che opera nei settori di specializzazione tipici italiani, ha continuato ad esportare senza problemi.
Negli anni scorsi, per esempio, sono stati esportati macchinari ed imprese italiane nei Paesi cd. Tigri asiatiche, ma anche nei Paesi dell'Est europeo: questo dimostra la grande efficienza e la grande flessibilità di questo meccanismo distrettuale.
Riprendendo in esame la serie dei Rapporti annuali si può affermare che, se letti con riferimento agli aspetti sociali, presentano una continuità di temi o comunque un filo conduttore di collegamento, questo perché il sociale si muove con la lancetta delle ore, mentre l'economico viaggia con la lancetta dei minuti. A mio parere, tuttavia, se leggiamo la serie dei Rapporti annuali con gli occhi di adesso, ci rendiamo conto che l'economia si muove con la lancetta dei minuti soprattutto per quel che riguarda l'andamento del ciclo economico, mentre, se leggiamo i Rapporti in prospettiva, si nota che le tendenze di fondo sono abbastanza continue anche in ambito economico. Questa è una considerazione rassicurante che conferma il rapporto stretto tra evoluzione economica ed evoluzione sociale.

Buratta - La realtà dei distretti industriali potrebbe, in futuro, avvantaggiare l'economia italiana perché è un tipo di organizzazione, in equilibrio tra economia e società, che ha già dimostrato una buona capacità di gestione. Perché i distretti industriali hanno funzionato così bene? Uno dei fattori alla base della capacità di sviluppo di questo modello della Terza Italia nasce dall'intreccio fortissimo, dall'integrazione molto spinta, che si crea in queste aree tra economia e società, nel senso che le imprese, in un certo ambito territoriale, riescono a funzionare bene perché intorno hanno delle istituzioni che si muovono in sincronia. E' il caso di quelle Amministrazioni comunali che facilitano le imprese predisponendo infrastrutture o facendo investimenti in formazione, grazie ad una comunicazione coerente tra il momento della formazione dei lavoratori ed il momento della loro integrazione nel mondo del lavoro. Secondo molti osservatori in queste realtà territoriali si è innescato un circuito virtuoso tra società ed economia, che ha portato al centro dell'attenzione il tema della ricchezza sociale e della sua diffusione nel nostro Paese, ponendo interrogativi per quanto concerne l'estensione e la localizzazione del fenomeno.
Se poi l'analisi vuole estendersi al di fuori dei tre soggetti tradizionali - la famiglia, lo Stato e il mercato - è necessario chiedersi quanto sia diffusa nel nostro Paese la solidarietà sociale proveniente dai cittadini. Parliamo, quindi, di volontariato e di solidarietà in generale, anche se non è questo il solo modo in cui si sviluppa la partecipazione sociale. Pensiamo ad esempio agli Stati Uniti dove, per decenni, si è affermato il modello di una società civile che si autoattiva al di là delle offerte del mercato o delle istituzioni. Rispetto a questo modello l'Italia è sempre sembrata una società con poco spirito civico.
Abbiamo, quindi, voluto verificare quale fosse il livello di partecipazione degli italiani al di là del proprio interesse familiare. Abbiamo pertanto analizzato alcuni possibili "segnali di partecipazione", ad esempio, la partecipazione dei cittadini alle attività culturali, alle attività politiche, alle attività religiose, perché anche il momento religioso può essere considerato uno dei momenti di socializzazione. In quest'ottica innanzitutto scopriamo che c'è un quarto dei cittadini italiani che si rende partecipe di attività senza fini di lucro e non familiari, quindi un quarto dei cittadini è coinvolto nella vita associativa, rappresentata, ad esempio, dal volontariato oppure dall'attivismo politico.
Se andiamo ad analizzare questi tassi di partecipazione, a livello regionale, scopriamo che in realtà c'è un certo equilibrio. Infatti, se è vero che ci sono parti del territorio in cui la partecipazione sociale è più elevata (per esempio, il Trentino con una punta del 42%), d'altra parte è anche vero che, se guardiamo al Sud, troviamo regioni (come la Basilicata o la Puglia) che hanno un livello di partecipazione addirittura più elevato della media italiana.
Ciò dimostra che questo Paese non è poi così "asociale", ossia i cittadini italiani non sono ripiegati su se stessi, si registrano diverse forme di partecipazione sociale e non concentrate solo nelle realtà più avanzate, ma largamente diffuse sul territorio nazionale.
Certamente le forme partecipative assumono connotati diversi nelle diverse regioni e, ad esempio, nelle regioni del Sud c'è una partecipazione più attiva per le manifestazioni di piazza, in parte intese anche come risposta a problemi di grande e grave portata. Il volontariato, invece, che è uno dei fenomeni maggiormente analizzati, è più concentrato nelle regioni del Nord, quali il Trentino (in questa regione, nel '97, oltre il 23% della popolazione svolgeva attività di volontariato).

Barbieri - Al riguardo è importante osservare che la qualità della partecipazione può agevolare la creazione di un certo tipo di rapporti, correlati allo sviluppo locale. Si tratta di una partecipazione inizialmente "di piazza", ma può anche manifestarsi attraverso rapporti interpersonali o interfamiliari più duraturi: va dal momento del volontariato a sfondo sociale ad attività più specificamente di matrice religiosa e può perfino assumere la forma di una vera e propria cooperazione sul mercato.

Buratta - Condivido l'osservazione, tuttavia, a mio parere, anche in questo caso la realtà italiana presenta diverse sfaccettature. Ad esempio, la partecipazione sindacale è più elevata in molte regioni del Sud di quanto non lo sia in alcune regioni del Nord.
In definitiva è importante capire se è vero che questo Paese rappresenta una realtà stagnante, in cui tutto sommato si è solo ripiegati sul proprio interesse personale oppure se c'è un'apertura all'esterno.
Questa apertura all'esterno c'è e, a mio modo di vedere, è significativa perché parliamo di una mobilitazione di circa 12 milioni di persone all'anno, che a diverso titolo - perché fanno volontariato, associazionismo, oppure attività politica - si prestano ad attività gratuite, ad operare senza fini di lucro occupando parte del loro tempo, buona parte della loro vita, per questo.
Analizzando meglio e più approfonditamente il contenuto di tali dati, certamente osserveremo che queste forme di partecipazione assumono caratteristiche diverse e probabilmente sono la risposta a bisogni diversi. Ad esempio, è convinzione generale che in Italia non si pratichi molto il volontariato, in base al fatto che si registra un numero piuttosto contenuto di associazioni di volontariato regolarmente iscritte agli albi regionali.
Tuttavia, approfondendo l'argomento, ci siamo accorti che c'è una parte di volontariato auto-organizzato, ma non formalizzato, che opera soprattutto nei piccoli comuni, nelle realtà dove il bisogno di formalizzazione è comunque minore.
Questo ci rivela una realtà certamente poco organizzata, perché un'associazione di volontariato che si autogestisce è probabilmente anche meno mobilitabile e quindi, dal punto di vista sociale, in quanto spontanea rappresenta una risorsa non facilmente pianificabile. Tuttavia tale realtà svolge un ruolo non irrilevante e complessivamente abbiamo circa il 9% della popolazione che svolge attività di volontariato, ossia un numero di persone che si aggira intorno ai 4 milioni, e parliamo solo degli individui oltre i 14 anni senza considerare gli anziani, che al momento costituiscono una quota piccola, ma destinata ad aumentare con il progressivo invecchiamento della popolazione.
Un invecchiamento della popolazione che, nella costruzione di futuri scenari, viene considerato da molti come un terribile disastro demografico, che porterà ad uno stato sociale appesantito, ad una situazione insostenibile. Tuttavia, al riguardo, occorre considerare che gli anziani di domani non saranno uguali agli anziani di oggi, perché saranno più istruiti e rappresenteranno quella quota di società che non cessa di essere attiva nel momento in cui si ritira dal lavoro.
Occorre inoltre considerare che il sostegno reciproco, non a pagamento, non si svolge solo attraverso il volontariato, ma è anche costituito da quella rete di aiuto interfamiliare, ossia da quell'insieme di rapporti di sostegno che viene dalle famiglie e va verso le famiglie, difficile da quantificare ma sicuramente rilevante nel determinare gli equilibri sociali. In tale ambito si può annoverare la pratica molto diffusa di affidare i bambini piccoli alla cura dei nonni, testimonianza di per sé di un bisogno diffuso che viene soddisfatto ad un livello informale e che, altrimenti, dovrebbe trovare risposta nei servizi.
In tale ottica diventa importante capire quale sia il livello di partecipazione alle attività sociali che non si esauriscono certamente nelle mere attività di volontariato.
Per quanto concerne la presenza giovanile nel volontariato, invece, notiamo che i giovani vi sono rappresentati e tuttavia costituiscono la nota dolente della questione, nel senso che, nel tempo, non si è osservata una crescita della partecipazione giovanile alle attività di solidarietà. In proposito potremmo aprire la parentesi giovani, prendendo in esame uno degli ultimi Rapporti e considerando il comportamento dei giovani nelle diverse sfumature.
Finora abbiamo sostenuto che l'emergenza dei giovani è la disoccupazione, un assunto indubbiamente corrispondente al vero e confermato dai numeri. Si tratta di dati purtroppo drammatici, in quanto laddove la disoccupazione in media è del 12%, la disoccupazione giovanile si attesta su una media del 33%. Di conseguenza ci troviamo di fronte ad una quota di popolazione che soffre di un disagio elevatissimo: i dati del '97 dicono che il tasso di disoccupazione dei giovani era del 33,5%, il tasso di occupazione solo del 25% ed il tasso di attività del 37%.
Inoltre il tasso di attività presenta grosse differenze tra uomini e donne, cioè il 61% contro il 34%, mentre tra i giovani il distacco si riduce notevolmente, si parla del 40% contro il 33%: un dato da tenere a mente quando guardiamo al futuro perché è evidente che le distanze nel tempo si sono accorciate. Lo stesso vale per il tasso di occupazione, che presenta differenze fra uomini e donne, con una media rispettivamente del 55% contro il 29%, mentre scende al 28% contro un 20%, per i giovani. E' chiaro dunque che il ricambio generazionale sta determinando davvero la differenza, tuttavia, quando guardiamo al futuro, dobbiamo guardare alla condizione giovanile nel suo complesso per capire come evolveranno certi comportamenti.

Barbieri - Vorrei fare due commenti. Il primo, che è parzialmente critico, riguarda la differenza esistente tra il profilo di vita lavorativa dell'uomo e quello della donna, nel senso che l'uomo in media comincia a lavorare più tardi, ma poi mantiene l'occupazione per tutta la vita, quindi troviamo tassi di occupazione elevati mentre per quanto riguarda le donne, nel modello tradizionale, esse lavorano fino a quando si sposano, o meglio fino a quando hanno il primo figlio.


Quale può essere, dunque, il ruolo dello strumento statistico, inserito nel contesto più ampio del processo dell'intelligence?

Buratta - Nel corso del Forum si è avuto modo di esporre e di analizzare quadri concernenti la raccolta informativa e le modalità operative dell'analisi statistica, di evidenziare, dunque, anche la grande quantità di dati a disposizione di questo strumento di ricerca.
Ritengo che le indagini statistiche, elaborate sulla base di dati rigorosi, quali possono essere considerate quelle condotte dall'ISTAT, con particolare riguardo a quelle comparate da scenari di previsione, possano trovare adeguata utilizzazione nel settore dell'intelligence, in quanto capaci di offrire indicatori di previsione attendibili, correlati da un'analisi puntuale della problematica.
In tale ottica, ripercorro e sottolineo le tematiche più pregnanti sin qui trattate al fine di poter offrire validi spunti di riflessione e di approfondimento.
Abbiamo affrontato soprattutto due grandi filoni di problematiche: uno è quello dell'evoluzione demografica ed uno è quello dell'occupazione, in tutte le sue sfaccettature.
Se torniamo alle battute iniziali, sempre nell'ottica di guardare al futuro, dobbiamo porre in essere un tipo di analisi che - lo ricordo ancora una volta - deve guardare alle generazioni, perché il dopo-guerra ha segnato per noi uno spartiacque tra due modi molto diversi di vivere e di crescere, quindi se ci soffermiamo soltanto su una media generale della popolazione non capiremo che cosa accadrà, perché buona parte del cambiamento arriva dalle generazioni future.
Solo per ricordare un numero, quel 65% di nuovi ingressi nelle grandi imprese può dirsi costituito completamente da lavori flessibili.
Infine, per tirare le somme, la famiglia è in grande evoluzione e complessivamente si contano circa tre milioni di nuclei familiari che hanno una configurazione atipica rispetto a quella cui siamo abituati a pensare, alla famiglia con padre, madre e figli. Si tratta di famiglie ricostituite, famiglie di genitori single e di giovani single, senza considerare le famiglie di vedovi, che naturalmente rientrano nel modello tradizionale.
La perdita delle funzioni tradizionali della famiglia interessa tutte le società moderne in via di evoluzione, laddove si nota da tempo che una parte delle attività di cura e di assistenza un tempo svolte all'interno dei nuclei familiari si va trasferendo al mercato ed ai servizi pubblici.
Quindi, banalmente, se vogliamo guardare nell'ottica dei secoli, pensiamo al fatto che prima l'educazione dei figli era centrata sulla famiglia, oggi è un servizio che viene reso esternamente, di conseguenza, in questo settore c'è una perdita di funzioni. Tuttavia, per quanto concerne la società italiana, questa perdita non coincide con una perdita del ruolo della famiglia perché la nostra è una cultura che pone il nucleo familiare al centro delle relazioni. Inoltre la famiglia non sta perdendo di ruolo perché non si sono create le condizioni per svolgere all'esterno alcune funzioni ed attività - in particolare l'attività di cura e di assistenza alle persone in difficoltà, ai malati ed agli anziani.
In proposito voglio darvi un dato che può sembrare triste e strano: in Italia circa il 40% delle morti avvengono in ospedale; in altri Paesi queste quote sono molto più elevate e toccano il 60-70%. Analizzando questo dato si deduce che in Italia nel momento terminale della malattia - quando il carico di impegno per l'assistenza è continuo e grave, oltreché emozionalmente impegnativo - la famiglia si riporta a casa il malato, spesso indotta anche dalle stesse strutture sanitarie.
Secondo il parere dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, questo è considerato un comportamento corretto, anche nel senso che dovrebbe indurre le famiglie a riconciliarsi e consentire di affrontare questo momento con meno traumi. D'altra parte rimane il fatto che si tratta di un gravoso impegno di cura che si trasferisce dalla Sanità alle famiglie, mentre in altri Paesi viene gestito a livello istituzionale.
Si comprende, in questi termini, anche l'impatto sociale che potrà avere la transizione demografica, che comporta il passaggio da una fase ad alta natalità e ad alta mortalità, tipica dei Paesi in via di sviluppo, ad una fase in cui c'è un basso tasso di mortalità, addirittura il 9-10 per mille ogni anno, ed un bassissimo tasso di natalità - al riguardo è noto a tutti che siamo il Paese con il più basso numero di figli per donna.
Concludo questa carrellata demografica con l'immigrazione, perché questo è uno degli elementi che dobbiamo considerare se guardiamo al futuro, soprattutto oggi che intorno a noi c'è una situazione politica e sociale che fa immaginare uno sviluppo ulteriore del fenomeno.
Nel nostro Paese, in questo momento, si contano circa un milione di stranieri regolarizzati e ormai radicati, la crescita non è stata rapida ma è stata continua, anche se il numero di presenze raggiunto non è certo paragonabile a quello che si registra in altri Stati quali la Germania - dove si contano 7 milioni di Turchi - e la Francia - dove vivono 3 milioni di Algerini.
L'immigrazione rappresenta uno dei nuovi settori d'interesse per le future analisi dell'Istituto, anche perché si tratta di una presenza complessa, una presenza fatta di famiglie e non più di individui, ovvero di stranieri ricongiuntisi alla famiglia con bambini che frequentano le nostre scuole.
Tutto ciò pone un problema di integrazione, riguardo al quale occorre considerare che, rispetto a modelli di altri Paesi - dove c'è predominanza massiccia di una comunità etnica rispetto ad altre - in Italia si registra una presenza straniera molto varia. Questa circostanza, che vede immigrati arrivare da varie parti del mondo - Sud America, Africa, Est-Europa.

Barbieri - In proposito c'è da considerare che il settore scolastico è uno dei campi in cui tutto sommato gli stranieri non sono ancora molto presenti, essendo solo un milione quelli in possesso di un regolare permesso di soggiorno e certamente pochi i loro figli.
Questa dimensione, che potrebbe sembrare troppo piccola perché si possa avvertirne l'impatto, nella realtà scolastica già presenta delle conseguenze. Infatti, è sufficiente un solo bambino di madre lingua straniera per porre un problema alla qualificazione dell'insegnamento, connessa alla necessaria presenza di insegnanti di lingue diverse.
E' una considerazione che ha sorpreso anche me e che induce a riflettere come la dimensione di un fenomeno non sempre aiuti a capire l'effettivo impatto dello stesso sulla realtà che stiamo studiando.

Buratta - Queste riflessioni possono essere considerate il fulcro del dibattito, infatti, se l'intento è quello di individuare il cambiamento, non si possono aspettare segnali importanti, macroscopici, è necessario riuscirne a vedere, capire e approfondire le manifestazioni prodromiche.


(*) Testo tratto dagli incontri svoltisi nell'ambito di un corso di specializzazione per analisti che ha avuto luogo a Roma nel maggio 1999, presso la Scuola di Addestramento del SISDe.
(**) A cura della Redazione.

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